Guerra Israele - Iran, il punto della situazione
Cosa è successo tra Israele e Iran, gli obiettivi dei due paesi e il ruolo degli Stati Uniti.
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Di cosa parliamo oggi:
Perché Israele ha attaccato?
Perchè adesso?
Il paradosso del nucleare
Il ruolo degli Stati Uniti
Le opzioni di Teheran
Nella notte di venerdì 13 giugno Israele ha lanciato uno dei più importanti attacchi della sua storia contro l’Iran. Le forze aeree dell’Israel Defence Force (Idf), le forze armate israeliane, hanno bombardato almeno sei siti militari e nucleari sul territorio iraniano, dopo aver messo fuori uso il sistema di difesa antiaereo dell’Iran e aver preso il controllo dei cieli della repubblica islamica.
Inoltre, l’Idf ha portato a termine una serie di bombardamenti anche nelle zone residenziali della capitale iraniana, Teheran, dove ha preso di mira i quartieri in cui vivono i generali dell’esercito iraniano e gli scienziati che dirigono il programma nucleare.
Negli attacchi sono stati uccisi almeno tre generali di alto livello delle forze armate iraniane: Mohammad Bagheri, comandante in capo dell’esercito iraniano, secondo solo all’Ayatollah Khamenei; Gholamali Rashid, vice di Bagheri; Hossein Salami, comandante in capo del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, anche noto come corpo dei Pasdaran, il più importante organo militare della repubblica islamica.
Nei bombardamenti dell’Idf su Teheran e altre zone residenziali sono stati uccisi anche centinaia di civili.
In risposta alle azioni di Israele, le forze iraniane hanno lanciato centinaia di razzi e droni in direzione delle principali città e infrastrutture dello stato ebraico, tra cui Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa e il porto di Ashdod. Nonostante i sistemi di difesa di Israele abbiano abbattuto gran parte dei missili, alcuni hanno fatto breccia e hanno causato danni e vittime in diverse città.
Secondo le stime ufficiali dei rispettivi ministeri, le vittime sarebbero almeno 300 in Iran, mentre in Israele ci sarebbero almeno 24 morti.
Lo scambio di attacchi è continuato dal 13 al 17 giugno, e al momento non è chiaro quando possa finire. Il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu ha dichiarato che l’attacco andrà avanti “fin quando necessario”, aprendo alla prospettiva di una guerra lunga anche settimane o mesi.
Perché Israele ha attaccato?
Il governo di Tel Aviv ha dichiarato che l’attacco ha due scopi: neutralizzare il programma nucleare iraniano e dare una spinta a un cambio di regime a Teheran.
Analizziamo il primo motivo, la minaccia nucleare.
Secondo Israele l’Iran sarebbe stato a un passo dall’avere la capacità di produrre circa 10 bombe atomiche. Che questo sia del tutto vero non lo sapremo mai con certezza, gli unici che hanno le informazioni a riguardo sono l’Iran, Israele e gli Stati Uniti.
Tuttavia, qualche giorno prima dell’attacco israeliano, la International Atomic Energy Agency (Iaea), l’organismo internazionale che sorveglia sull’utilizzo dell’energia atomica nel mondo, ha rilasciato un report in cui evidenziava che Teheran ha a disposizione circa 400 kg di uranio arricchito al 60%; se questa quantità di uranio viene portata al 90% di arricchimento, sarebbe sufficiente per produrre circa 10/15 bombe.
Inoltre, negli stessi giorni la Iaea ha richiamato in modo formale l’Iran per delle violazioni degli obblighi dei trattati di non proliferazione delle armi atomiche, un evento che non accadeva da vent’anni.
Israele ha deciso quindi di cogliere la palla al balzo. L’Idf ha attaccato i siti di Natanz e Fordow, i due principali siti di arricchimento dell’uranio iraniani, distruggendo gran parte delle infrastrutture di superficie.
Tuttavia, gli stabilimenti di Fordow si sviluppano anche in profondità.
Secondo gli analisti dell’Iaea, lo stabilimento di Fordow ha delle infrastrutture a circa 700 metri sottoterra, protette dalle catene montuose della regione, le quali sarebbero impossibili da distruggere con attacchi aerei, anche usando le bombe distruggi-bunker di produzione americana, che al momento Israele non ha.
L’unico modo per renderle inutilizzabili sarebbe tramite un attacco diretto con agenti sul campo, ma anche in questo caso non è detto che le infrastrutture vengano danneggiate in modo definitivo. Inoltre, resta la questione dei 400 kg di uranio già arricchito al 60%, la cui localizzazione è forse sconosciuta anche all’esercito israeliano.
Adesso veniamo alla seconda questione, il cambio di regime.
L’attacco all’Iran è stato denominato dal governo israeliano Operazione Rising Lion, cioè operazione Leone che Risorge, in riferimento al simbolo del regno persiano al potere prima della rivoluzione islamica del 1979.
Il primo ministro Netanyahu ha auspicato più volte un cambio di regime in Iran, il quale però sembra poco realistico. Soprattutto se incoraggiato da Tel Aviv e Washington.
La storia dimostra che i cambi di regime non sono affatto una passeggiata, ormai dovrebbe essere chiaro dopo i casi dell’Afghanistan, Libia, Siria, etc. (la lista è lunga). Si sa dove si inizia, ma poi gli eventi diventano incontrollabili.
In questo caso non si parla solo di far cambiare sistema di governo all’Iran, ma anche di un cambio di schieramento geopolitico. L’Iran potrebbe diventare anche una democrazia laica, ma dove sta scritto che un repubblica democratica iraniana sarebbe filo-occidentale, filo-americana e filo-israeliana?
Di solito ci sono tre possibilità per far cambiare corso storico e geopolitico a un paese:
invaderlo e occuparlo, stile Germania e Giappone alla fine della seconda guerra mondiale. Nel caso dell’Iran lasciamo questa ipotesi nella fantapolitica (almeno per ora, ormai è inutile fare previsioni, ndr).
colpire la classe dirigente e fomentare una guerra civile, stile Libia di Gheddafi o Siria di Assad. In Siria ci sono voluti 15 anni di guerra per arrivare a un cambio di regime, in Libia invece la situazione è ancora in bilico dopo 14 anni di scontri. Buona fortuna con questa strada.
un cambio spontaneo all’interno della società iraniana, che in parte potrebbe essere presente, come dimostrano le proteste “Donna, Vita, Libertà” scoppiate nel 2022.
Tuttavia, la terza ipotesi è poco plausibile. Nonostante le difficoltà economiche e sociali, il regime iraniano ha sviluppato un apparato di sicurezza stabile ed efficiente che è riuscito a mantenere il potere attraverso diverse crisi.
Inoltre, gli attacchi israeliani in questo senso potrebbero essere controproducenti, causando un sentimento di attaccamento allo stato e alla patria anche in quegli iraniani che odiano il regime islamico.
Lo sapeva già Machiavelli 500 anni fa: quando uno stato ha problemi interni deve scaricare le tensioni verso un nemico esterno e compattarsi. L’attacco di Israele potrebbe aiutare tutto ciò.
Ho scambiato qualche messaggio con un mio contatto a Teheran, molto critico del regime, che mi ha confermato questa ipotesi. “Le persone sono contente che comunque ci sia uno stato che risponde all’attacco, altrimenti molti pensano che faremmo la fine di Gaza o dell’Iraq” mi ha detto.
Che gli iraniani vedano come “liberatori” gli israeliani che hanno massacrato i Palestinesi nella Striscia sembra fantascienza.
Il paradosso del nucleare
Come sostiene la studiosa di dottrina nucleare Farah N. Jan, l’attacco di Israele all’Iran potrebbe causare un effetto a catena inaspettato e cambiare gli assetti internazionali nel campo delle politiche sulle armi atomiche.
Tel Aviv, un paese che ha molto probabilmente l’atomica, ha attaccato Teheran, un paese sulla soglia di diventare una potenza nucleare, per prevenire una minaccia esistenziale.
Ma questo attacco “preventivo” (secondo la legge internazionale non rientra nella definizione di preventivo, in quanto non era presente una chiara e immediata minaccia) potrebbe portare l’Iran ad accrescere ancora di più i suoi sforzi per ottenere l’atomica.
Oggi il regime iraniano si sente in pericolo perché isolato dal punto di vista economico, con scarsi mezzi militari e con un rivale che dichiara apertamente di cercare un cambio al potere a Teheran.
In questo contesto, la dirigenza iraniana potrebbe vedere nell’arma nucleare l’unica vera assicurazione sulla vita. Un ragionamento simile a quello fatto dal regime della Corea del Nord in passato.
Inoltre, l’attacco israeliano, che nei fatti non è stato condannato da nessuna potenza, potrebbe creare un precedente per altri attacchi preventivi dello stesso tipo.
Perché adesso?
Perché Israele ha attaccato adesso? Risposta breve: perché può.
Proviamo a metterci nei panni di un generale o di un capo di stato di un paese in perenne stato di guerra come Israele: il mio nemico è in difficoltà, ho i mezzi per colpirlo, allora colpisco.
Negli ultimi due anni Tel Aviv ha messo in ginocchio la rete di alleanze dell’Iran, l’Asse della Resistenza, come la chiama Teheran, composta da Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, gli Huthi in Yemen e le milizie filo-iraniane in Iraq.

La dirigenza di Hezbollah è stata decimata, Hamas è confinata nel massacro di Gaza e gli Huthi hanno capacità militari ridotte. Quindi le minacce filo-iraniane vicine al territorio israeliano, in particolare Hezbollah, non sono più un grosso problema, infatti al momento non si riportano lanci di missili dal Libano verso Israele.
In secondo luogo, l’attacco ha permesso a Israele di far saltare, almeno per adesso, le trattative diplomatiche tra Stati Uniti e Iran per un nuovo accordo sul nucleare. Accordo a cui Netanyahu si è sempre opposto.
Un nuovo incontro tra le due delegazioni avrebbe dovuto aver luogo il 15 giugno in Oman, ma è saltato dopo l’escalation.
Infine, c’è la questione interna di Israele. Netanyahu sa di non essere molto amato dagli israeliani e potrebbe essere ricordato come il primo ministro che ha permesso l’attacco del 7 ottobre e che non può vincere la guerra contro Hamas.
Con l’attacco all’Iran invece potrebbe cambiare il corso della storia e restare nei libri di storia come colui che ha messo in ginocchio il nemico esistenziale dello stato ebraico.
Il ruolo degli Stati Uniti
Prima dell’attacco Trump aveva dato molto peso alle trattative diplomatiche per un possibile accordo con l’Iran.
Dopo l’attacco il segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha subito dichiarato che gli Stati Uniti non hanno aiutato Israele e ha intimato all’Iran di non prendere di mira le basi o il personale statunitense nella regione.
è plausibile pensare che l’amministrazione Trump non voglia essere trascinata in un’altra guerra in Medio Oriente
Tuttavia, l’amministrazione Trump non ha condannato l’attacco di Israele, al contrario. Dopo i fatti, il presidente americano ha elogiato l’operato dell’Idf e ha sostenuto che l’Iran se l’è cercata, visto che non ha firmato un accordo quando poteva farlo.
Tuttavia, il gioco di Trump non è del tutto chiaro. La sua amministrazione si è spesa molto per un accordo diplomatico con l’Iran e ha chiesto più volte a Israele di ritardare un’azione militare. Dopo l’attacco, forse Trump ha capito che ormai il treno era partito e ha deciso di sfruttare la situazione per costringere Teheran a sedersi al tavolo in una posizione di debolezza.
Negli ultimi due anni gli Stati Uniti hanno avuto uno scarso, alcuni direbbero nullo, controllo su Israele, che ha fatto un po’ come gli pareva senza perdere l’appoggio, e le armi, della Casa Bianca.
Inoltre, sembra che all’interno del partito Repubblicano di Trump abbia prevalso l’ala neoconservatrice, che da sempre sostiene un atteggiamento duro e militarista nei confronti dell’Iran.
Come sempre le parole di Trump sono ondivaghe, e gli Stati Uniti sono un impero troppo grande e troppo complesso perché un uomo, il presidente, possa da solo determinare il corso degli eventi.
Le opzioni di Teheran
Per il regime iraniano al momento l’unica opzione sembra quella di rispondere con il massimo delle sue forze e resistere il più possibile agli attacchi.
Infatti, una “resa” da parte di Teheran potrebbe causare effetti imprevedibili. Da un lato, potrebbe far sembrare il regime debole e vulnerabile ai suoi oppositori, come i manifestanti per la libertà del 2022, che potrebbero riprendere coraggio.
Dall’altro, una resa palese sarebbe vista come un tradimento dalla base sociale e militare che sostiene il regime.
In questo contesto, nel pomeriggio del 16 giugno, tramite il Wall Street Journal è emersa la notizia che gli iraniani avrebbero chiesto ai paesi arabi del golfo di recapitare un messaggio a Trump: fare pressione su Israele per riprendere il dialogo diplomatico e fermare l’escalation.
Il governo iraniano potrebbe confidare nell’avversione di Trump verso nuove guerre. Quindi l’obiettivo di Teheran sarebbe resistere, almeno fino a quando gli Stati Uniti riportino la questione sul tavolo diplomatico per evitare un coinvolgimento diretto di Washington nel conflitto.
Nel frattempo, Teheran cerca di mostrare i denti il più possibile per dimostrare forza all’interno e all’esterno. Restando in piedi fino alla riapertura dei dialoghi, l’Iran mostrerebbe resilienza e si presenterebbe al tavolo della trattativa in una buona posizione.
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